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PSICO

IO, TU, L'UNIVERSO
 

Lo psicodramma permette alla persona di esprimere, attraverso la drammatizzazione, i diversi aspetti della sua vita, aiutando a stabilire, tra questi, dei collegamenti costruttivi.

Il soggetto tenderà a proiettare nella rappresentazione la sua reale condizione psicologica e i conseguenti problemi.

In pratica questo processo favorisce la presa di coscienza riguardo ai così detti “nodi non risolti”.

La rappresentazione scenica, assumendo la forma della finzione, permette una espressione più libera dei conflitti e dei comportamenti inadeguati, rendendoli maggiormente evidenti e più espliciti, facilitando lo sblocco di situazioni psicologiche cristallizzate e ripetitive.

Praticamente l’uso dello psicodramma si basa su due applicazioni fondamentali, la crescita personale e la padronanza nel gestire le relazioni interpersonali.

 

Lo psicodramma valorizza una immagine chiaramente socratica, così come fa anche la gestalt, cioè è il paziente ad essere il protagonista e da lui nasce la cura.

 

Nella storia della vita di Moreno, padre dello psicodramma, vi è un episodio che definirei chiave del suo pensiero.

Quando svolgeva il lavoro di medico condotto in una cittadina vicino a Vienna, Bad Vaslau, un ricco e infelice paziente gli chiese di essere assistito nel proprio suicidio.

Cioè chiese a Moreno di aiutarlo a morire standogli vicino e lo avrebbe ricompensato eleggendolo unico erede del proprio patrimonio.

L’atteggiamento di Moreno costituirà una delle caratteristiche essenziali dell’approccio psicodrammatico e cioè che qualunque contenuto mentale espresso dal paziente debba essere riconosciuto ed accettato senza essere manipolato.

Moreno chiarisce al paziente che egli, come medico, aiuta la gente a vivere e a sentirsi meglio con se stessa. In pratica egli accoglie l’immagine che gli viene comunicata, pur impregnata di angoscia e vi entra senza paura per esplorarla insieme, mostrando che in questo stare insieme c’è una forza positiva che supera la negatività delle fantasie del paziente.

Questo atteggiamento è privo di significati svalutanti, di manipolazioni e di comportamenti moralistici, ma al contrario enfatizza l’esistenza della persona, gli trasmette l’energia e lo stimolo di

“esserci“, dunque di potersi esprimere senza sentirsi in colpa.

Si capisce come per Moreno il terapeuta non debba essere uno schermo neutro ( cosa molto comune soprattutto in quegli anni ) che fa eco alle espressioni del paziente, ma un IO reale che fornisce a un TU  la possibilità di una vera relazione interpersonale.

 

“ tu paziente vieni da me a chiedermi di aiutarti a morire. Io posso aiutarti soltanto a vivere, perché questo risponde al mio credo personale e professionale. Ma il mio modo di aiutarti a vivere non consiste nell’oppormi al tuo desiderio di procurarti la morte, al contrario, se accetti il mio aiuto, io sarò al tuo fianco e ti darò la mia presenza e la mia collaborazione per farti entrare profondamente nei tuoi desideri, sino all’incontro con la morte della tua immaginazione, non con quella irreversibile della realtà.”

 

Quindi Moreno e il paziente progettano il modo di morire, interagendo creativamente e inducendo il ricco signore a moltiplicare la produzione di immagini e a costruire nuovi ruoli.

Sono insieme entrati nel “gioco“.

Vengono create incalzanti scene, fittizie, ma in grado di indurre un profondo coinvolgimento emotivo.

La spontaneità e la creatività sono i due fondamenti del pensiero moreniano… spontaneità e creatività e il loro dinamico divenire.

La spontaneità è lo stato psichico che rende il soggetto disponibile ad attivare le proprie energie e ha la funzione di liberare la creatività.

La creatività è un potenziale che si definisce solo nel momento in cui vi è l’atto concreto e si manifesta con risposte adeguate a nuove situazioni o nuove risposte a vecchie situazioni.

Senza la spontaneità la creatività rimane senza vita, senza la creatività la spontaneità è vuota e sterile.

Quindi, più che soffermarsi alla sofferenza e al “non essere”, si esalta l’attualizzazione del vissuto.

Lo psicodramma è uno spettacolo vivente e ottiene i maggiori risultati proprio coi soggetti che hanno difficoltà relazionali connesse a situazioni di blocco espressivo. Un ruolo centrale dello psicodrammatista è quello che tende a creare all’interno del gruppo delle situazioni contestualizzate che provochino nei presenti utili movimenti dell’io-attore e consentano all’io-osservatore il riconoscimento e la verbalizzazione del materiale emerso.

E’ chiaro perciò che il fattore spontaneità-creatività è l’elemento propulsore della crescita personale perché determina la trasformazione in azione del mondo interno del soggetto.

 

Perciò l’utilità dello psicodramma sta nel riprendere la storia dal punto in cui si era lasciata, riprenderla e correggerla.
E correggerne gli effetti. La rappresentazione psicodrammatica è, in un certo senso, più vicina alle origini, in quanto permette di rivivere eventi traumatizzanti e di sperimentare nuovi atteggiamenti.

Il racconto, tipico della terapia psicoanalitica, è invece più vicino al punto di arrivo, che è un comportamento proprio dell’adulto e non del bambino.

Comunque, sia psicanalisi che psicodramma, si riconoscono entrambi nella storia personale dell’individuo.

 

Un’altra innovazione di Moreno è quella di avere superato l’approccio individualista, introducendo il gruppo e questo perché è di fondamentale importanza la componente sociale dell’individuo.

I conflitti non esistono solo nello spazio intrapsichico del paziente, ma esistono relazioni oggettuali e interpersonali che contribuiscono al determinarsi del conflitto.

Quindi l’attenzione viene spostata dal singolo individuo al sistema sociale.

Infatti, l’evento psicologico e quello sociale sono profondamente interconnessi, per cui il gruppo nello psicodramma rappresenta uno strumento molto importante, sia ai fini dell’analisi e della comprensione dei vissuti dei soggetti, sia ai fini terapeutici.

 

Dobbiamo ricercare un IO in un UNIVERSO non conosciuto.

Questa ricerca è un po’il senso del il mondo interpersonale del bambino di Stern.

Il sé è in pratica un aspetto della personalità che si caratterizza  e si sviluppa fin dall’inizio della vita e precede sia lo sviluppo del linguaggio, sia l’inizio della coscienza del sé.

Per Daniel Stern il bambino organizza, attraverso le sue prime esperienze, quattro e successivi sensi del sé:

  • il senso del sé emergente, nei primi due mesi di vita;

  • il senso del sé nucleare, da 2 a 6 mesi;

  • il senso del sé soggettivo, dai 7 ai 15 mesi;

  • il senso del sé verbale, dopo i 15 mesi.

 

Questi diversi sensi del sé non si elidono mai ma, anzi, si sommano e ciascuno resta in funzione durante tutta la vita dell’individuo.

Nel neonato esiste la capacità di trasformare e di elaborare le diverse esperienze sensoriali in rappresentazioni.

Questa capacità permette di integrare le diverse esperienze sensoriali e di farne, appunto, delle rappresentazioni. I principi di questa modalità riguardano le attività sensoriali e motorie che consentono al neonato di conoscere il mondo che lo circonda e il piacere o il dispiacere che scaturisce da queste esperienze e dalle conseguenti rappresentazioni, gli permette di vivere un senso del sé.

Il senso del neonato di potersi muovere, di agire, di trarre piacere da alcune esperienze, fa sì che cominci a formarsi in lui, dai due-tre mesi, un senso del sé nucleare.

L’aspetto principale in questa fase è quello della continuità del tempo, che pone la questione della memoria nell’infanzia, intesa come capacità del neonato di dare un senso di continuità alle proprie esperienze motorie, sensoriali e affettive.

Secondo  Stern, e mi sento di condividere questa opinione, la memoria è una funzione che precede la nascita ed che è dunque già presente dall’epoca prenatale.

A questo proposito si possono fare alcuni esempi, in particolare molto evidente è quello dell’esperienza musicale nella fase prenatale che, se ripetuta successivamente alla nascita, desta nel neonato una attenzione che è molto suggestiva dell’avere a che fare col ricordo.

 

Contrariamente alle teorie analitiche che parlano di fusione del bambino con l’oggetto, anche in epoche molto precoci, esiste la capacità del bambino di avere senso di essere con l’altro, di integrarsi e di differenziarsi.

A questo proposito, forse con un po’di presunzione, consiglio di rivedere quanto scrissi in una precedente relazione a proposito dell’autonomia del feto osservata durante controlli ecografici in gravidanza.

Dai sette mesi circa il neonato realizza che la sua esperienza soggettiva può essere divisa con altri e quindi si tratta di una esperienza che diviene intersoggettiva in cui l’oggetto viene condiviso.

 

Questo processo porta nel tempo allo sviluppo di una sintonizzazione affettiva che rappresenta la tappa fondamentale nella acquisizione  del linguaggio (sé verbale), con  un nuovo e ulteriore mezzo di scambio che permette al bambino di creare significati condivisi con la madre.

Ovviamente l’esperienza verbalmente rappresentata produrrà una scissione nelle esperienza vissuta, quella del sé, in quanto determina un passaggio dal livello emotivo a quello della rappresentazione.

Il linguaggio è quindi una specie di fenomeno transizionale necessario al genitore e al bambino per formare e organizzare significati condivisi.

La scissione che il linguaggio determina comporterà una discrepanza fra la conoscenza del mondo e le parole e a questo proposito pensiamo a certi stati contemplativi ed emotivi, alla percezione di alcune opere d’arte che evocano esperienze molto lontane da qualsiasi approccio verbale, pensiamo ancora di più alla musica.

 

Altro capitolo interessante è quello relativo agli aspetti clinici influenzati dal rapporto madre-bambino, che si trovano in costante interazione.

Il bambino, dice Stern, è provvisto di “uno scudo protettivo contro gli stimoli”, ma è sempre vigile ed aperto alla percezione del mondo che lo circonda.

Quindi anche il bambino autistico non è mai autistico perché sempre impegnato nella relazione sociale.

Resta valida l’origine traumatica della psicosi o della nevrosi, a patto che venga ricercata nella storia del paziente sotto forma di esperienza definita come origine narrativa della sua patologia, capace di fornire la metafora e quindi la chiave per modificare la sua vita.

 

In conclusione molte modalità transferali che vengono vissute nel “qui ed ora” della realazione, non corrispondono alle emozioni reali vissute dal bambino con la madre, per cui dobbiamo stare attenti a collegare tutti gli accadimenti alle prime relazioni infantili.

 

“Gia’nell’utero materno si vive pienamente la condizione dell’essere contenuti… il contenimento è tra le più arcaiche esperienze del se’“  (Rispoli)

 

Il corpo non si ammala per un conflitto psichico, il corpo non è il terreno di battaglia dei conflitti della mente.

Il mondo corporeo e quello psichico non sono entità separate e se restiamo intrappolati in questa alternanza siamo perduti.

Quindi dobbiamo fare un salto concettuale dove anche parlare di psicosomatica è, in un certo senso,  riduttivo

Se parliamo di corpo emozionale, di corpo espressivo e di corpo energetico ci allontaniamo sia dal corpo che dalla mente.

E' necessario andare oltre,  parlare di multidimensionalità e di guardare all’uomo ( come già affermava Platone ) nel suo insieme.

 

Il tutto, i dettagli, il funzionamento, si pongono come esperienze di base per lo sviluppo del sé.

E si tratta davvero dell’organizzazione di tutte le funzioni dell’uomo. I ricordi, delle fantasie, le immagini, la progettualità, la razionalità, il tempo, le emozioni, i movimenti, le posture, la forma del corpo, il simbolico, le sensazioni, la tensione muscolare, il sistema neurologico, immunitario, neurovegetativo…

 

Non si deve più parlare solo di intelligenza emotiva, anche se si tratta di una modalità importante per come si approccia il funzionamento del bambino, ma si deve ormai parlare di intelligenza integrata, estesa cioè a tutti i livelli di funzionamento del se'.

L’accoglienza dei bisogni fondamentali, la protezione nel periodo di sviluppo, l’attraversamento positivo e pieno delle esperienze di base…qui sta il nucleo centrale del percorso e qui sta l’essenza del percorso terapeutico che è legato all’evolutiva di quel determinato paziente, vista nella sua interezza e in tutti i piani di funzionamento.

 

Quindi ricostruire prima di tutto le esperienze basilari carenti, incomplete, soffocate, e ridare equilibrio e riorganizzazione.

Questa multidimensionalità non si deve però confondere con una delle parole più usate in questo periodo storico e cioè olismo, perché l’olismo può cadere nello stesso errore del riduzionismo e può essere assunto come semplificazione della realtà e restare troppo vago e generico.

A meno che non si parli di un tutto visto come dinamismo di organizzazione, come funzione dei sistemi e come pensiero funzionale, appunto intelligenza funzionale.

 

Gian Piero Pedretti - 2005

 

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