Microbioma e Microbiota
Il corpo umano è abitato da miliardi di microrganismi che hanno instaurato con l'ospite un rapporto di simbiosi mutualistica e costituiscono il microbioma umano, il quale svolge nell'individuo sano importanti funzioni biochimiche e trofiche, contribuisce a modulare il sistema immunitario e interviene nei meccanismi di difesa. Il microbioma, che è frutto di studi scientifici da molti decenni, interviene inoltre in diverse situazioni e malattie che poi vedremo. Bisogna però fare attenzione a non farsi influenzare dall'azione promozionale delle aziende venditrici di prodotti per il ripristino della flora microbica, i cui benefici effettivi sono ancora da dimostrare.
Che cosa è il microbioma
Il termine microbioma non si riferisce semplicemente ai microrganismi in sé, ma anche al loro teatro di attività, includendo con ciò anche la loro nicchia biologica, le condizioni dell'ambiente in cui vivono, l'insieme dei loro genomi, dei trascritti e dei prodotti metabolici e strutturali.
Che cosa è il microbiota
Si intende la comunità di microrganismi che occupa un ecosistema ben definito, le cui specie sono generalmente identificate mediante analisi genetica. In pratico è il solo "contenuto" che non tiene conto delle interazioni tra singoli microrganismi e tra essi e l'ospite.
Che cosa è il metagenoma
Rappresenta la misura del potenziale funzionale di una popolazione microbica, è cioè il genoma collettivo, inclusi i singoli geni, di una data comunità di microrganismi in un determinato ambiente. Sulla base dei geni e dei genomi individuati e degli organismi presenti è possibile dunque predire il tipo di funzioni che potrebbe svolgere un determinato microbioma e il proprio contributo in termini fisiopatologici.
Le funzioni del microbioma
E' implicato nel catabolismo di alcune molecole, tra cui i nutrienti della dieta, motivo per cui è una componente attiva del processo di digestione. Partecipa alla bioconversione di alcuni farmaci, specie quelli assunti per via orale, modificandone la biodisponibilità. Contribuisce a potenziare alcune vie metaboliche nelle cellule umane, come la conversione dei sali biliari.
Ha un ruolo esclusivo nella sintesi di alcune molecole, ad esempio la vitamina K2.
Ha una zione trofiche per alcune cellule come gli enterociti. Ha un ruolo importante nella modulazione del sistema immunitario e della tolleranza immunologica.
In generale si può dire che la presenza di popolazioni microbiche non patogene sulla superficie delle mucosa garantisce un buon mantenimento della omeostasi che spesso proprio attraverso le mucose trovano una facile via d'accesso all'organismo.
La relazione tra l'organismo umano e il microbioma è così stretta e imprescindibile che potrebbe essere considerato un vero e proprio organo e infatti i suoi squilibri possono favorire situazioni patologiche. La sua peculiarità è quella di non essere confinato a un solo distretto, né di essere distribuito in maniera omogenea, ma di abitare diversi ambienti del corpo aggregandosi in popolazioni specifiche per cui si ha una distinzione tra microbioma gastrointestinale, orale, vaginale, cutaneo, polmonare, ciascuno con le proprie caratteristiche.
Inoltre va considerato che esiste una diversità nelle popolazioni microbiche delle varie sedi, tanto da distinguere popolazioni differenti che colonizzano l'organismo nelle varie fasi della vita. Anche in questo caso la diversità è giustificata dalle diverse funzioni che il microbioma svolge a supporto dei normali processi fisiologici tipici di ogni età. Ci sono molti fattori che possono modificale l'equilibrio dinamico di ciascun microbioma, come il sesso, l'alimentazione, i farmaci, l'igiene, fattori ambientali, i ritmi circadiani e la variabilità stagionale. Si è visto, medianti accurati studi scientifici che si sono svolti negli ultimi decenni, come le alterazioni e gli equilibri del microbioma possono associarsi a differenti malattie, gastrointestinali, cardiovascolari, metaboliche, dermatologiche, urogenitali, respiratorie, immunitarie, neurologiche...
Nell'idea di salute bisognerebbe quindi considerare anche la componente microbica normalmente presente nell'organismo, avendo però l'accortezza di non farsi influenzare dalle azioni promozionali delle aziende (farmaceutiche o alimentari) che spingono all'uso di prodotti che avrebbero lo scopo di riequilibrare la flora batterica, specie quella intestinale, con benefici in realtà tutti da dimostrare per la salute.
Il microbioma intestinale è il più significativo per il mantenimento dello stato di salute per le numerose funzioni che svolge e per la sua dimensione (fino a cento trilioni di microrganismi). Ma vediamo che accade nel corso della vita. L'ambiente prenatale è considerato sterile e la prima colonizzazione avviene durante il parto e nei bambini nati con parto vaginale il microbioma intestinale è molto simile a quello vaginale e intestinale della madre, mentre in quelli nati da cesareo è invece molto più simile al microbioma cutaneo della madre. . In questa trasmissione verticale è possibile che vi sia anche un trasferimento di geni della antibiotico-resistenza (soprattutto nei nati da cesareo.
L'instabilità generale del microbiota neonatale crea la cosiddetta finestra di opportunità, un periodo fondamentale in cui le cellule immunitarie in via di maturazione incrociano i microrganismi e questo incontro è utile alla formazione del sistema immunitario e della tolleranza immunologica, necessaria per lo sviluppo di autoimmunità o altre malattie e per determinare stabilità duratura del microbioma dell'adulto.
Il metagenoma dei neonati ha geni utili alla degradazione degli zuccheri del latte materno e all'utilizzo di acido lattico come substrato energetico grazie alla presenza di bifidobacterium, lactobacillus, collinsella, granulicatella e veillonella. Il processo di perfezionamento continua con l'allattamento e lo svezzamento determina il primo processo adattativo del microbioma. Al primo anno di vita il microbioma è più articolato e simile a quello dell'adulto con l'aggiunta di nuove specie di microrganismi e la produzione di vitamina K e del gruppo B (acido folico, riboflavina, piridossina, biotina, cbalamina).. A tre anni è simile del tutto a quello dell'adulto e si stabilizza con 6 popolazioni dominanti e con funghi, lieviti, virus...
La somministrazione di antibiotici può ridurre il microbioma intestinale con effetto variabile.
Il microbioma è coinvolto nella maturazione e nella educazione del sistema immunitario dell'ospite e attraverso la resistenza alla colonizzazione il microbiota protegge la propria nicchia biologica dall'invasione di microrganismi esogeni potenzialmente patogeni.
Nell'anziano lo stile di vita, la dieta, i farmaci, l'immunosenescenza e la variata fisiologia intestinale portano a cambiamenti del microbioma intestinale che si riduce per numero e per prestazioni utili. Si riducono i bifidi e i lattobacilli e aumentano i clostridi, i bacteroidi e i proteobatteri. Questo porta facilmente a disbiosi e a maggiore fragilità dell'organismo.
Il microbioma orale è il secondo più grande per composizione e variabilità di specie dopo quello intestinale e nel cavo orale la selettività e estremamente forte. Ciascuna superficie del cavo orale possiede un microbioma specifico e dipende dalle condizioni ambientali di tonsille, faringe, esofago, canale nasale e tromba di Eustachio e dipende anche dalle condizioni di umidità e di ossigenazione e dipende anche dal flusso salivare, dalla masticazione e dal passaggio dei cibi e dei liquidi. Quindi dipende molto dalla dieta, dall'igiene orale, dalla struttura demtale, dallo stile di vita, dal fumo e dai farmaci.
La colonizzazione avviene poche ore dopo la nascita.
Il microbioma cutaneo. La cute è colonizzata da un microbioma specifico che utilizza come fonti di energia le sostanze presenti nel sebo, nel sudore e nello strato corneo. Nei diversi distretti cutanei diverse specie microbiche stimolano l'epitelizzazione del tessuto, educano le risposte immunitarie e favoriscono la protezione dai patogeni e ambiente.
La prima colonizzazione avviene al momento del parto. I neonati con parto vaginale ereditano dalle mucose materne lattobacilli... rimpiazzati in 6 settimane dagli stafilococchi e dai corinebatteri tipici della cute. Per i nati con parto cesareo dominano subito gli stafilococchi, i corinebatteri e i cutibatteri. Durante la pubertà gli ormoni sessuali regolano la produzione di sebo e lipidi favorendo specie lipofile. Una volta stabilizzata la composizione dei microrganismi è abbastanza ridotta , con una variabilità causata da molteplici fattori tra cui l'ambiente, l'igiene, lo stile di vita, il sudore, la desquamazione e l'applicazione di prodotti.. In età adulta sono presenti anche virus, batteriofagi, acari, funghi e lieviti.
Il microbioma delle mani ha una importanza fondamentale se si tiene conto del loro alto potenziale di trasmissione microbica (sia patogeni che commensali) che deriva da ogni contatto. Il microbioma delle mani è molto variabile e dinamico.
Le funzioni del microbioma cutaneo. I commensali della cute nelle prime fasi della vita
consentono l’addestramento dei linfociti T della memoria, dei linfociti T regolatori e di altre
cellule del sistema immunitario adattativo. I microrganismi modulano anche i fibroblasti e le cellule immunitarie durante la riparazione tessutale a seguito di ferite, così come la neogenesi dei follicoli piliferi:36 quando la cute viene lesa, lo Staphylococcus epidermidis rilascia dalla sua parete cellulare l’acido lipoteicoico, in grado di ridurre l’infiammazione e contenere il danno tessutale. Il microbioma regola in parte la formazione dello strato corneo dell’epidermide, producendo molecole che guidando la differenziazione finale delle cellule e stimolano la compattezza della barriera di cheratinociti.
L’antagonismo batterico diretto agisce contro i patogeni con diverse strategie specifiche, tra cui la produzione di molecole selettive. Lo Staphylococcus hominis produce un antibiotico contro lo Staphylococcus aureus. Il lievito Malassezia globosa secerne una proteasi contro la proteina A, principale fattore di virulenza dello Staphylococcus aureus, e contro il suo biofilm;
il “quorum sensing”, secondo cui gli stafilococchi si scambiano informazioni chimiche tra loro e interferiscono con lo Staphylococcus aureus, per esempio bloccando la produzione di tossine.L’antagonismo batterico indiretto ha anch’esso diverse strategie, tra cui:
1. l’induzione dei cheratinociti a produrre peptidi e proteine contro i patogeni;
2. la produzione da parte di alcuni microrganismi di molecole immunostimolanti: il Cutibacterium acnes compare durante la pubertà con lo sviluppo delle ghiandole sebacee, dal cui sebo sono prodotti acidi grassi a catena corta a effetto proinfiammatorio (contrariamente alla loro azione intestinale, dipendente dalle condizioni ambientali specifiche)
3. la regolazione del pH: il Cutibacterium acnes produce anche acido propionico (da cui il nome originario di Propionibacterium acnes) che, insieme agli acidi grassi, contribuisce a mantenere basso il pH della pelle, un ulteriore meccanismo di difesa contro alcuni patogeni.38
Il Cutibacterium acnes è il batterio associato all’acne, che compare però solo in alcuni soggetti soprattutto in età adolescenziale: si è osservato che il profilo di espressione genica di questo batterio è ben distinto tra individui che soffrono di acne e individui senza la malattia.
Il microbioma vaginale
In una persona cisgender in età riproduttiva e in stato di salute, la comunità microbica vaginale è dominata da un singolo genere: il Lactobacillus spp. al quale seguono altri microrganismi in minoranza. È stato osservato un numero limitato di specie microbiche, organizzate in cinque “vaginotipi” (dal tipo I al tipo V), le cui comunità lavorano in sinergia.
Quattro “vaginotipi” sono dominati da lactobacilli (Lactobacillus crispatus, Lactobacillus gasseri, Lactobacillus iners, Lactobacillus jensenii rispettivamente nei tipi I, II, III e V); il quinto (tipo IV) ha proporzioni più bilanciate di batteri anaerobi obbligati e facoltativi (Gardnerella, Atopobium, Prevotella, Candidatus Lachnocurva vaginae, Sneathia, Peptoniphilus, Finegoldia e Megasphaera).
I “vaginotipi” dominati dai lactobacilli, e in particolare da Lactobacillus crispatus, sembrano offrire uno stato protettivo e di salute maggiore all’ospite rispetto agli altri, con Lactobacillus iners all’ultimo posto.
Buona parte delle donne sane in età riproduttiva condivide la presenza di Lactobacillus iners,
Lactobacillus crispatus e Gardnerella vaginalis, che hanno dunque distribuzione ubiquitaria nel mondo;
la variabilità è comunque presente e dipende da molteplici fattori personali e ambientali.
L’età è un importante fattore di variabilità:
1. gli estrogeni in età fertile promuovono la proliferazione delle cellule epiteliali vaginali e aumentano lo stoccaggio di glicogeno, mentre il progesterone lisa le stesse cellule permettendo il rilascio del glicogeno, che stimola la proliferazione dei lattobacilli e viene convertito in acido lattico, abbassando il pH e rendendo l’ambiente ottimale;
2. le fasi preadolescenziali, il premenarca e la menopausa hanno scarsa presenza di estrogeni e dunque un epitelio vaginale più sottile e scarso in glicogeno: in queste fasi i “vaginotipi” sono molto diversi e raramente sono dominati dai lattobacilli, hanno un pH più alto e una densità di batteri di molto inferiore rispetto ai soggetti adulti in età fertile.
Durante la mestruazione si osserva un aumento di batteri anaerobi, normalmente presenti come simbionti ma in minore quantità, come Gardnerella vaginalis, Atopobium vaginae e Prevotella bivia. Il sangue mestruale ha un pH lievemente basico (7,2-7,4) e l’acido lattico prodotto dai lattobacilli è meno efficace contro i patogeni opportunisti, rendendo l’ambiente vaginale più vulnerabile; il ferro derivante dai globuli rossi danneggiati nel sangue mestruale è una preziosa risorsa per la proliferazione di molti opportunisti come la Gardnerella vaginalis. Al termine della mestruazione, la composizione del microbioma viene ripristinata.
Le funzioni del microbioma vaginale
La comunità microbica vaginale ricava il proprio nutrimento dal glicogeno libero, prodotto dall’epitelio, e dal muco, che è originato dalla cervice uterina e ricopre lo strato più superficiale della vagina; entrambi rispondono alle fluttuazioni ormonali date dal ciclo mestruale. Il muco viene convertito dai batteri in acido lattico, il quale abbassa il pH a circa 4,0, inibendo alcuni patogeni (tra cui Gardnerella, Prevotella, Mobiluncus ed Escherichia coli): il “vaginotipo” I, dominato da Lactobacillus crispatus, ha il pH più acido ed è associato a un migliore stato di salute, mentre gli altri sono lievemente più basici a indicazione di una
differente capacità di metabolizzare l’acido lattico.
Il microbioma vaginale compete con i microrganismi potenzialmente patogeni mediante strategie di resistenza alla colonizzazione:
1. la produzione di acido lattico da parte dei lattobacilli, che oltre a un effetto diretto verso i microbi è in grado anche di modulare il sistema immunitario e la risposta dell’ospite;
2. la produzione di batteriocine, peptidi antibiotici naturali rilasciati dai commensali;
3. la produzione di perossido di idrogeno, che inibisce la crescita di batteri anaerobici opportunisti.
Il Lactobacillus crispatus costruisce uno strato proteico esterno che sembra conferirgli una miglior adesione alle cellule ospiti, bloccando l’ingresso dei patogeni. I batteri presenti nel “vaginotipo” I hanno inoltre un alto numero di IgA e IgG sulla loro superficie: le IgA sembrano coinvolte nel mantenimento dell’eterogeneità microbica, nei meccanismi di esclusione e inclusione immunitari (che permettono ai patogeni di venire eliminati dalle mucose e ai commensali di mantenersi stabili), nelle attività immunomodulatorie. Le funzioni benefiche delle IgA spiegherebbero l’associazione del Lactobacillus crispatus con il miglior stato di salute vaginale rispetto agli altri “vaginotipi”. Il Lactobacillus iners, il batterio dominante del “vaginotipo” III, produce una citolisina che lisa le altre cellule batteriche; il ruolo del Lactobacillus iners nella salute vaginale è comunque dibattuto, poiché il
“vaginotipo” III è poco stabile e tende a trasformarsi in altri.
Il microbioma respiratorio
Anche il tratto respiratorio è colonizzato da un proprio microbioma, nonostante la sua esplorazione sia iniziata non da molto a causa dell’iniziale convinzione che i polmoni fossero un distretto corporeo sterile e dalla difficoltà di campionamento delle vie respiratorie. Il microbioma polmonare ha un’alta variabilità interpersonale, data da numerosi fattori, ed è variabile anche nei diversi tratti del sistema respiratorio.
I germi entrano nei polmoni attraverso la microaspirazione e la dispersione lungo le superfici; la composizione del microbioma è transitoria a causa del trascinamento dei microbi dato dal flusso d’aria, ma una certa stabilità è data dall’eliminazione selettiva di alcune specie a causa dell’ambiente non ottimale e dei processi immunitari e infiammatori.
Le alte vie respiratorie sono le prime a entrare in contatto con l’esterno e vi si trova la maggior densità di microrganismi. Nelle narici anteriori, ricoperte da epitelio cheratinizzato e da ghiandole sierose e sebacee, ci sono colonizzatori lipofilici come Staphylococcus, Propionibacterium e Corynebacterium oltre a Moraxella, Dolosigranulum e Streptococcus. Il rinofaringe è abitato da Moraxella, Staphylococcus e Corynebacterium ma anche da Dolosigranulum, Haemophilus e Streptococcus. Sull’epitelio squamoso stratificato dell’orofaringe, non cheraritinizzato, si trovano streptococchi, Neisseria, Rothia e alcuni
anaerobi come Veillonella, Prevotella e Leptotrichia.
I virus delle prime vie respiratorie sono rhinovirus, bocavirus, adenovirus, coronavirus, polyomavirus e virus della famiglia Anelloviridae: poiché questi stessi virus sono frequenti anche nei bambini ospedalizzati per infezioni respiratorie, si può presumere che lo stato patologico dipenda non tanto dalla presenza dei virus di per sé, quanto più da altri fattori tra cui la carica virale, l’età e lo stato di salute generale. I funghi riscontrati nelle alte vie respiratorie del soggetto sano sono Aspergillus, Penicillium, Candida e Alternaria.
Le basse vie respiratorie sono state a lungo considerate sterili e il microbioma solo recentemente studiato, nonostante via sia il problema di possibili contaminazioni, vista la maggiore densità microbica presente nelle prime vie respiratorie.46 Il microbioma polmonare raggiunge i polmoni tramite dispersione lungo le superfici e microaspirazione dalle vie superiori, la cui composizione microbica è infatti molto simile e costituita da Firmicutes (Streptococcus, Staphylococcus e Veillonella), Bacteroides (Prevotella),
Proteobacteria (Moraxella, Haemophilus), Fusobacteria, Acidobacteria e Actinobacteria.
Corynebacterium e Dolosigranulum, presenti nelle prime vie respiratorie, sono qui assenti.
I virus presenti sono membri della famiglia Anelloviridae e batteriofagi; i funghi sono Eremothecium, Systenostrema, Malassezia e Davidiellaceae. Non sembrano esserci diversità spaziali nella composizione del microbioma lungo le superfici a causa della transitorietà delle popolazioni.
Le funzioni del microbioma delle vie respiratorie
Durante la “finestra di opportunità” (vedi prima) le interazioni del microbioma respiratorio con il sistema immunitario consentono un’adeguata risposta dell’ospite alle infezioni sin dai primi giorni di vita. È infatti fondamentale sviluppare la capacità di eliminare i patogeni in maniera adeguata e la tolleranza nei confronti dei commensali. Per fare ciò, i microrganismi delle vie respiratorie, in sinergia con i macrofagi definiti “alveolari” e le cellule dendritiche, possono produrre proteine che controllano l’infiammazione e la risposta innata
(potenzialmente dannosa per i tessuti) e indurre la tolleranza immunologica mediante la stimolazione di linfociti T regolatori. Inoltre, la maggior parte dei commensali vive all’interno dello strato protettivo di muco presente sull’epitelio e, contrariamente a molti patogeni, non raggiunge mai gli stati più profondi evitando il contatto diretto con le cellule immunitarie.
Nelle vie respiratorie esistono differenti meccanismi di resistenza alla colonizzazione
attraverso la competizione microbica: nelle prime vie respiratorie, Dolosigranulum e Corynebacterium contrastano l’invasione di Streptococcus pneumoniae; nel rinofaringe, lo Staphylococcus epidermidis antagonizza lo Staphylococcus aureus distruggendone il biofilm. In generale, i commensali tendono a utilizzare tutti i nutrienti disponibili per sottrarli ai microrganismi patogeni. I batteriofagi, molto numerosi, infettano costantemente i batteri per i quali hanno tropismo e contribuiscono a regolare la composizione delle comunità batteriche; a loro volta però, esse hanno sviluppato alcuni meccanismi di difesa contro i virus che tornano utili nei commensali contro i virus esogeni.
Il microbioma nel malato
Le alterazioni del microbioma vengono sempre più spesso associate alla presenza di malattie, nonostante la direzione di causalità dei due fenomeni sia ancora da chiarire nella maggior parte dei casi. Gli squilibri delle popolazioni batteriche, virali o fungine danno infatti origine a meccanismi che accomunano gran parte delle
malattie, tra cui la produzione di metaboliti tossici da parte dei microrganismi, la ridotta produzione di molecole utili, il mancato controllo dell’infiammazione, le aberrazioni del sistema immunitario o la proliferazione di potenziali patogeni. Tra le malattie individuate si ricordano la diarrea da Clostridioides difficile, le malattieinfiammatorie croniche intestinali, il cancro del colon-retto, l’aterosclerosi e le
coronaropatie, l’ipertensione arteriosa, l’obesità, il diabete di tipo 2, la steatosi epatica non alcolica e la steatoepatite, l’acne, la dermatite atopica, la candidosi vulvovaginale, la vaginosi batterica da Gardnerella vaginalis, l’asma, la broncopneumopatia cronica ostruttiva, l’infezione da SARS-CoV-2, alcune malattie
autoimmuni, allergie e malattie neurodegenerative.
Le disfunzioni del microbioma enterico sono spesso associate a malattie del tratto gastrointestinale e alla sua compromissione, nonostante non ci siano ancora evidenze causali dirette tra i due fenomeni.4,5 Sono stati approfonditi i rapporti con la diarrea causata da Clostridioides difficile, le malattie infiammatorie croniche intestinali e con il tumore del colon-retto, condizioni accomunate da un importante stato di flogosi.
L’entrata nel torrente circolatorio di microrganismi commensali che, normalmente, abitano nicchie biologiche
ben definite all’interno dell’ospite è alla base dell’associazione tra il microbioma, la formazione di placche
aterosclerotiche e la disfunzione endoteliale.22 Il passaggio di microrganismi dal distretto gastrointestinale al
circolo sistemico è stato riscontrato in pazienti con malattie del sistema cardiocircolatorio ma anche dismetaboliche, notoriamente associate a un maggior rischio cardiovascolare.
Fra i vari fattori microbici che contribuiscono allo sviluppo di malattie cardiovascolari, è ormai accertata
la correlazione tra scarsa igiene orale, sviluppo di parodontite e comparsa di eventi ischemici, tra cui
l’infarto del miocardio. Nella parodontite, i batteri del solco gengivale passano più facilmente nel torrente
circolatorio raggiungendo le placche aterosclerotiche, dove è stata riscontrata la presenza di commensali
caratteristici del microbioma orale; inoltre, alcune molecole prodotte dai microrganismi attivano i processi immunitari e flogistici, contribuendo allo sviluppo dell’ateroma.
In molti ipertesi si osserva una disbiosi intestinale, da intendere all’interno di un quadro più complesso,
in cui si tenga conto degli altri fattori confondenti. Nei soggetti ipertesi è comunque stata osservata una
notevole riduzione nella diversità e nella ricchezza microbica intestinale, oltre alla prevalenza dei batteri
Prevotella e Klebsiella, meno frequenti nel sano. In più, il rapporto Firmicutes/Bacteroidetes è molto alto
nei soggetti ipertesi.
La disbiosi può generare uno squilibrio degli acidi grassi a catena corta prodotti dai microrganismi: si
riducono il butirrato e il propionato, che è in grado di modulare il rilascio di renina da parte del rene e
quindi il tono vascolare, regolando la pressione sanguigna.28 Infine, anche l’acido solfidrico prodotto dai
microrganismi intestinali può influenzare la vasodilatazione e disequilibri nella sua produzione possono
quindi portare a un’alterazione del tono vascolare.
Il microbioma intestinale ha un importante ruolo nella mediazione tra fattori ambientali e patologie
metaboliche, come l’obesità (spesso accompagnata da altre comorbilità), dove esso contribuisce alla
regolazione dell’accumulo di energia e nella produzione di substrati che possono essere immagazzinati.
Anche in questo caso, stabilire quali siano le cause e quali le conseguenze tra la modifica del microbioma e
l’insorgenza della malattia è ancora una sfida aperta.
L’insorgenza dell’acne è strettamente legata alla proliferazione del batterio Cutibacterium acnes,
nonostante la carica batterica non mostri significative differenze tra i soggetti che sviluppano la malattia e
i sani (vedi prima).Esistono sei filotipi (IA1, IA2, IB, IC, II e III): una perdita di eterogeneità con la
dominanza di alcuni (in particolare IA1) è associata a una malattia più grave, perché predispone a uno
stato di flogosi. Il Cutibacterium acnes stimola uno stato proinfiammatorio e il rilascio di enzimi (lipasi,
metalloproteinasi della matrice e ialuronidasi) che portano alla ipercheratinizzazione dell’unità
pilosebacea, punto di partenza per lo sviluppo di iperseborrea, punti neri (comedogenesi), papule e
pustole cutanee. In aggiunta, il batterio può formare un biofilm che ne aumenta la virulenza e conferisce
una resistenza a eventuali trattamenti. I batteri dominanti sulla cute di pazienti con acne sono Cutibacterium, Staphylococcus, Corynebacterium, Streptococcus e Micrococcus, insieme al fungo Malassezia, che è associata all’acne refrattaria se in un contesto generale di disbiosi.
L’equilibrio che si instaura tra Cutibacterium acnes e Staphylococcus epidermidis è cruciale e mantenuto
stabile attraverso un controllo reciproco della proliferazione e delle disponibilità di nutrienti. La rottura
dell’equilibrio, che è frequente in età adolescenziale a causa degli ormoni, permette l’insorgere della
malattia. Anche uno stato di disbiosi del microbioma intestinale, oltre che di quello cutaneo, sembra coinvolto nello sviluppo dell’acne a causa della produzione di metaboliti proinfiammatori; ciò soprattutto quando associato a una dieta di tipo occidentale ricca di carboidrati, grassi saturi e sale.
Il microbioma nelle malattie urogenitali
La candidosi vulvovaginale da Candida albicans
Candida albicans, un fungo commensale presente nella flora vaginale in circa il 65% delle donne, si
manifesta sintomaticamente come candidosi vulvovaginale, di cui ne è la causa nel 90% dei casi.56
Candida albicans può passare da uno stato di blastospora, ovale e non virulenta, che evade i meccanismi
di riconoscimento del sistema immunitario ed epiteliale, alla struttura ramificata e filamentosa delle ife,
virulente e invasive. Il sistema immunitario mantiene l’equilibrio tra i due stati microbici, poiché le ife
vengono immediatamente riconosciute e fagocitate. Anche la composizione e l’integrità del microbioma vaginale contribuiscono a evitare l’insorgenza della candidosi vulvovaginale: i lattobacilli sembrano inibire la transizione patogena e la proliferazione di Candida albicans attraverso la produzione di acido lattico e molecole antimicrobiche che inibiscono le modifiche strutturali alla base della transizione.
Nelle donne con la candidosi il microbioma vaginale subisce una forte riduzione dei lattobacilli in
generale, e in particolare di Lactobacillus crispatus, che è associato a uno stato di salute, mentre è spesso
dominato da Lactobacillus iners. Oltre alla presenza di Candida albicans, la candidosi vulvovaginale è associata a infezioni polimicrobiche, soprattutto nelle forme più gravi con frequente sviluppo di resistenze ai trattamenti o recidive.
La vaginosi batterica da Gardnerella vaginalis
Nella vaginosi batterica si osserva un forte squilibrio del microbioma vaginale, con deplezione dei lattobacilli e crescita di batteri anaerobi, molto scarsi nel microbioma fisiologico, tra cui Atopobium vaginae, Ureaplasma urealyticum, Mycoplasma e Prevotella ma soprattutto Gardnerella vaginalis.
La Gardnerella vaginalis agisce in vario modo: produce la sialidasi, un’idrolasi che degrada le IgA e le mucine vaginali, riducendo la viscosità vaginale e rendendo suscettibili alle infezioni; produce una citotossina che danneggia le cellule epiteliali, causando perdite vaginali; produce enzimi proteolitici che degradano alcune decarbossilasi dell’ospite, che dovrebbero convertire gli aminoacidi in amine biogene: l’accumulo di aminoacidi in un ambiente basico genera il cattivo odore caratteristico della vaginosi batterica;
forma un biofilm utile come aggancio per l’ingresso di altri patogeni. Di recente è stato stabilito che Gardnerella vaginalis è un batterio necessario ma non sufficiente per lo sviluppo della vaginosi batterica, che è in realtà una malattia polimicrobica e richiede uno stato generale di disbiosi: sono state individuate 13 differenti specie del genere Gardnerella, di cui solo alcune implicate nella malattia.
Le malattie sessualmente trasmissibili e il microbioma
Il microbioma vaginale costituisce un’importante barriera biologica contro le infezioni da parte dei microrganismi patogeni, tanto che uno stato di disbiosi vaginale si associa a una maggiore ricorrenza di infezioni a trasmissione sessuale. In più, un microbioma ricco in lattobacilli, offre una maggior protezione
verso l’HIV e altre malattie a trasmissione sessuale, che sembrano correlarsi anche con il “vaginotipo”.
Alla base, la produzione di acido lattico da parte di Lactobacillus rende il pH più acido e quindi ostile ai
patogeni, cosa che non accade in uno stato di disbiosi; uno stato infiammatorio generale rende più vul -
nerabile la mucosa, con un aumento del rischio di infezione.
L’infezione da HIV si correla di frequente con una disbiosi vaginale, in maniera indipendente dalle variabili
comportamentali; la riduzione dei lattobacilli si accompagna a un aumento di linfociti CD4+ a livello
delle mucose, creando una condizione ottimale per l’infezione da HIV, di cui i CD4+ sono il bersaglio
principale.2 Anche il papillomavirus umano (HPV) è spesso ritrovato in concomitanza con alti livelli di
Gardnerella vaginalis, Candida albicans e alcune specie di Bacteroides, oltre a numerosi anaerobi; al
contrario, il test per l’HPV è di frequente negativo in presenza di lattobacilli.
Il microbioma nelle malattie respiratorie
I microrganismi del tratto respiratorio, soprattutto in una condizione di disbiosi, producono molecole che
interagiscono con l’ospite e con il suo sistema immunitario, generando le risposte di tipo infiammatorio
che sono alla base di alcune malattie croniche respiratorie.
Ci sono numerose prove di alterazioni del microbioma intestinale nei pazienti affetti da alcune malattie
respiratorie, così come una maggior frequenza di alcune malattie respiratorie in soggetti che hanno una
disbiosi enterica: si ipotizza quindi un ruolo del microbioma intestinale, oltre a quello respiratorio, nella
genesi o nella riacutizzazione di questi disturbi, secondo quello che viene chiamato “asse intestinopolmoni
Il microbioma polmonare sembra avere un ruolo nella patogenesi dell’asma: esso, nel sano, ha un ruolo
protettivo, la cui compromissione può generare una riduzione delle difese immunitarie, la colonizzazione
da parte dei patogeni opportunisti e il conseguente danno alle mucose e all’epitelio, tipico dello stato
ossidativo contribuiscono all’ostruzione delle vie respiratorie.
La disbiosi del microbioma respiratorio potrebbe avere un ruolo nella patogenesi e nella progressione o
riacutizzazione della broncopneumopatia cronica ostruttiva, data dall’inefficienza delle difese contro i
patogeni opportunisti
Il microbioma nelle malattie immunitarie Le alterazioni del microbioma possono contribuire al malfunzionamento del sistema immunitario e generare uno stato di malattia a causa delle numerose interazioni che i microrganismi hanno con esso. La rottura della tolleranza immunologica periferica può avvenire a causa di molti fattori (genetici, epigenetici, ambientali) e può generare risposte immunitarie verso l’ospite stesso (malattie autoimmuni) sia verso fattori esterni innocui (come il microbioma o alcuni allergeni.
Ceppi differenti di batteri intestinali possono avere diversi effetti regolatori nell’artrite reumatoide, dati
dallo stato di disbiosi: in alcuni casi contribuiscono ad alleviare i sintomi, in altri a peggiorarli a causa
della stimolazione dell’infiammazione, l’attivazione aberrante dei linfociti o il mimetismo molecolare
(vedi box).
Nei pazienti con artrite reumatoide di nuova insorgenza si osserva un’abbondanza intestinale di
Prevotella copri, che induce una forte risposta infiammatoria; si trovano anche specifiche IgA sieriche e
citochine che attivano i linfociti T helper 1 e 17 contro il batterio, suggerendo un suo ruolo come possibile
stimolo per l’insorgenza della malattia.
L’abbondanza di Haemophilus intestinale nei pazienti si correla spesso a livelli più bassi di autoanticorpi
specifici (tra cui il fattore reumatoide) e quindi a un quadro clinico migliore. Al contrario, nei pazienti
si trovano bassi livelli di Faecalibacterium e Bacteroides, grandi produttori di acidi grassi a catena corta,
mentre si ha un aumento di Collinsella. Nell’artrite reumatoide si può osservare un’aumentata permeabilità della mucosa intestinale e dunque il passaggio dei microrganismi o dei loro metaboliti nella circolazione sistemica. Il commensale Collinsella aerofaciens, spesso presente nei pazienti con artrite reumatoide, ha la capacità di inibire l’espressione delle giunzioni strette sull’epitelio intestinale; al contrario, il Faecalibacterium prausnitzii è normalmente implicato nel mantenimento della barriera ma è scarsamente presente in questi pazienti. Ne consegue che l’infiammazione sia sistemica sia a livello delle articolazioni possa essere innescata proprio da molecole di origine batterica.
Lo sviluppo di allergie, in particolare quelle alimentari, potrebbe coinvolgere anche il microbioma
intestinale, che ha un ruolo importante nello sviluppo della tolleranza immunologica così come della sua
rottura nei confronti degli allergeni, molecole che nei soggetti non allergici non suscitano alcuna
reazione. Secondo la cosiddetta “ipotesi dell’igiene”, un’eccessiva sanificazione degli ambienti può aumentare l’incidenza delle allergie soprattutto nei bambini; lo stesso vale anche per il microbioma, poiché solo dall’interazione del sistema immunitario con un microambiente adeguato può costruirsi un’immunità
efficiente nel distinguere tra antigeni propri e innocui e quelli potenzialmente dannosi. Squilibri del microbioma intestinale portano a una riduzione dei linfociti T regolatori e a una polarizzazione verso i linfociti T helper di tipo 2, con produzione di IgE che generano una reazione contro pollini o proteine di origine alimentare. Per questo, è stata proposta un’estensione della definizione a “ipotesi del microbioma
Negli allergici sono ridotti gli acidi grassi a catena corta, prodotti dai batteri, che sembrano avere nel sano
un coinvolgimento nella regolazione dei meccanismi immunitari e infiammatori, con una funzione
protettiva nei confronti delle allergie alimentari. Dall’interazione con gli acidi grassi a catena corta, i
linfociti e le cellule enteriche producono il peptide antimicrobico e il muco, che mantengono integra la
mucosa intestinale e proteggono la lamina propria dall’esposizione agli antigeni del cibo, dunque dal
fenomeno di sensibilizzazione allergica. Perciò la deplezione di batteri che producono metaboliti
importanti per l’ospite può portare all’innesco di allergie, soprattutto se la disbiosi cade nella “finestra di
opportunità” dell’infanzia.
Il microbioma nelle malattie neurologiche
La relazione tra il ruolo del microbioma (soprattutto intestinale) nelle malattie neurodegenerative, ma
anche nello sviluppo neuronale e nell’invecchiamento, attraverso quello che è definito “asse intestinocervello”, è un argomento molto discusso.
Ci sono tre principali vie di interazione nell’asse intestino-cervello che possono avere un ruolo nella
patogenesi delle malattie neurodegenerative:
1. la segnalazione chimica. Le molecole prodotte dal microbioma intestinale possono influenzare il sistema
nervoso agendo sul sistema neuroendocrino e sulla produzione dei neurotrasmettitori;
2. la via neurale. I metaboliti batterici possono agire sul nervo vago e sul sistema nervoso enterico;
3. la mediazione del sistema immunitario. L’attività della microglia e la produzione di citochine sistemiche
hanno un ruolo importante nella modulazione delle funzioni cerebrali.
Microbioma e terapie. Trapianto di microbioma fecale. Probiotici e prebiotici.
La manipolazione del microbioma mirata al ripristino delle sue condizioni fisiologiche ha rivelato un discreto potenziale nella riduzione dell’incidenza o della gravità di alcune malattie. Tra le metodiche utilizzate, il trapianto di microbioma fecale rientra nelle linee guida per alcune condizioni gastroenteriche, nonostante
non possa ancora vantare un lungo e consolidato utilizzo nella pratica clinica. Per quanto riguarda i prodotti probiotici e prebiotici, il loro impiego come profilassi o potenziale terapia è molto dibattuto: infatti, bisogna fare attenzione a distinguere tra le reali prove scientifiche e le spinte commerciali delle aziende produttrici.
Occorrono studi controllati e randomizzati di buona qualità al fine di poter meglio definire valori di efficacia e sicurezza di probiotici e prebiotici.
Il trapianto del microbioma fecale consiste nel trasferimento di una comunità di microrganismi da un donatore
sano, privo di patogeni, al paziente, un ricevente che soffre di una determinata malattia enterica. La sua
applicazione si basa sull’ipotesi che il ripristino delle condizioni microbiche intestinali possa portare alla risoluzione della sintomatologia e quindi a un miglioramento delle condizioni, se non alla cura radicale in alcuni casi. Questo può avvenire mediante la ripresa della sintesi di metaboliti batterici benefici per l’ospite e l’interazione con il sistema immunitario (entrambe alterate nello stato di disbiosi) oppure mediante la cessazione degli stimoli infiammatori e dannosi generati dalla presenza della flora batterica non fisiologica.
Per questo il trapianto di microbiota viene suggerito in condizioni come l’infezione da Clostridioides difficile
e le malattie infiammatorie croniche intestinali; inoltre, l’applicazione di questa procedura in altre malattie di
varia natura è al vaglio della ricerca clinica in tutto il mondo, come si può osservare dall’importante numero
di protocolli e studi clinici che si riscontra nei database ufficiali.
La fonte del materiale per il trapianto fecale può essere eterologa, con origine da un donatore specifico o dalle
banche biologiche (con campioni fecali congelati o freschi), o autologa. Quest’ultima si pratica quando il paziente ha un microbioma in salute, tuttavia dovendosi sottoporre a procedure mediche che comportano
un’alterazione microbica viene fatta una raccolta preventiva del campione che viene conservato e successivamente trapiantato al bisogno.
Nella donazione eterologa, il donatore deve compilare un questionario e viene sottoposto a colloquio, mentre
il campione fecale subisce un processo di screening preventivo mediante analisi specifiche, al fine di indagare
la presenza di potenziali patogeni che porterebbero all’esclusione del donatore dalla procedura di trapianto:
uno dei punti cruciali rimane la corretta individuazione di microrganismi patogeni che potrebbero non risultare dagli esami preventivi, dal momento che il campione è costituito per definizione da popolazioni molto eterogenee di microrganismi e materiale biologico vario, e una nuova infezione è dunque uno dei rischi principali legati al trapianto di microbiota fecale, riportata in letteratura anche se molto raramente.
La procedura di trapianto può seguire diverse vie: tramite l’ingestione di capsule, oppure a livello del tratto
gastrointestinale inferiore (clistere, colonscopia o sigmoidoscopia flessibile, previa lavanda intestinale) o superiore (sondino nasogastrico o nasointestinale).
L’esito del trapianto di microbioma fecale è influenzato da molti fattori, tra cui il tipo di malattia, la numerosità del campione di studio e la modalità di esecuzione della procedura che può variare da studio a studio. Oggi in letteratura si trovano opinioni discordanti sull’efficacia dell’intervento e ci sono diverse questioni ancora aperte:
vi è mancanza di consenso sulla definizione di “microbioma sano”, che sia unica e universale;
le procedure di trapianto utilizzate sono diverse e la mancanza di standardizzazione rende difficile
confrontare il risultato dei diversi studi clinici;
la compatibilità tra il microbioma del donatore e il ricevente è fonte di variabilità, così come sono variabili
le percentuali di successo in termini di attecchimento e colonizzazione delle popolazioni trapiantate nel
nuovo ambiente;
nonostante ci si aspetti una correlazione tra livello di attecchimento e successo clinico, non ci sono a oggi
prove sistematiche di tale correlazione;
il successo clinico della procedura non sembra essere significativamente associato al tipo di ceppi
colonizzatori del donatore di per sé, né alle caratteristiche proprie del donatore; al contrario, potrebbero
avere un maggior peso le caratteristiche specifiche dell’ospite e la compatibilità tra ospite e donatore,
rendendo cruciale e complessa una scelta ragionata del campione in termini di comunità, di genere e di
specie microbiche per avere una maggiore efficacia.
Le probabilità di attecchimento di un trapianto fecale variano a seconda della specie microbica considerata e
delle proprietà tassonomiche e fenotipiche. Per esempio, le specie con maggiori capacità immunomodulatrici
(come i Bacteroidetes e gli Actinobacteria, tra cui i Bifidobacteria), i Gram negativi e alcune specie con proprietà proinfiammatorie hanno una maggiore capacità di colonizzazione, soprattutto rispetto ai Firmicutes.
Tuttavia, poiché i riceventi sono sempre pazienti con una condizione enterica alterata, resta da chiarire se le
specie proinfiammatorie abbiano di per sé una miglior propensione a colonizzare ambienti nuovi o se non sia
invece l’ambiente intestinale del paziente, nella condizione di disbiosi e predisposto all’infiammazione, a favorire il loro attecchimento. Una più accurata definizione del paziente e una manipolazione del microbioma del donatore, personalizzata e adattata su misura del ricevente per ridurre alcune specie batteriche e arricchirne altre, sono entrambi approcci promettenti, nonostante i risvolti clinici restino ancora da definire mediante ulteriori studi su un numero ampio di pazienti.
Anche l’utilizzo combinato di più tecniche di trapianto, per esempio l’ingestione di capsule associata a un in -
tervento di colonscopia, sembra dare risultati migliori in termini di colonizzazione; infine, è stato consigliato
in alcuni casi un trattamento antibiotico prima del trapianto, che predisporrebbe l’ambiente intestinale a una
maggior apertura verso la colonizzazione di altre specie, pur dovendo tenere in considerazione i rischi legati
all’antibiotico-resistenza.
I probiotici e i prebiotici
Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione verso la possibilità di manipolare la composizione del microbioma
intestinale mediante l’utilizzo di probiotici, prebiotici e simbiotici (vedi box) nell’ipotesi di migliorare la situazione in diverse condizioni. La questione è molto controversa, tanto che un articolo di JAMA mette in
guardia dal loro uso sotto la spinta promozionale delle aziende farmaceutiche e titola in maniera provocato -
ria: “Are probiotics money down the toilet? Or worse?”.1 Occorre quindi fare chiarezza.
L'individuazione dei probiotici risale al 1965 e si tratta di quei prodotti contenenti microrganismi viventi che, quando somministrati in quantità adeguate, conferisce all'ospite un beneficio per la salute.
Secondo la definizione del 2016 dell’Associazione Scientifica Internazionale per i Probiotici e i Prebiotici
(ISAPP), un prebiotico è un substrato che viene utilizzato selettivamente dai microrganismi dell’ospite
conferendo a esso un beneficio.5 Sono quindi incluse anche sostanze non carboidratiche o applicazioni del prodotto in siti diversi dal tratto gastrointestinale. Molti prebiotici non possono essere metabolizzati dal sistema digerente dell’ospite, e sono perciò substrato esclusivo di specifici membri dei batteri intestinali o dei lieviti e dei loro enzimi.
I fermenti lattici sono ceppi batterici (principalmente Lactobacillus, Lactococcus, Pediococcus, Enterococcus
e Streptococcus) e lieviti selezionati coinvolti nella fermentazione del latte e in grado di metabolizzare
il lattosio, che si trovano frequentemente nei prodotti caseari e negli alimenti fermentati (come
carne, verdure e cereali). Non tutti i batteri in grado di metabolizzare il lattosio sono considerabili fermenti
lattici, ma lo sono quelli che svolgono processi benefici per l’uomo e producono prevalentemente
acido lattico, a discapito di altre sostanze: il fatto che i fermenti lattici vivi conferiscano benefici per la
salute è definito “effetto probiotico” nei confronti dell’organismo, mentre un effetto “bioattivo” è dato dai
metaboliti e dalle molecole che questi microrganismi producono
Secondo la definizione del 2019 dell’Associazione Scientifica Internazionale per i Probiotici e i Prebiotici
(ISAPP), un simbiotico è una miscela comprendente microrganismi vivi e substrati utilizzati selettivamente
dai microrganismi dell’ospite che conferisce un beneficio alla salute. Nel dettaglio, si deve distinguere
funzionalmente tra un simbiotico complementare, composto da un probiotico più un prebiotico senza che necessariamente le due componenti debbano interagire, e un simbiotico sinergico, in cui il substrato (il prebiotico) è stato scelto per essere utilizzato selettivamente dai microrganismi co-somministrati (il probiotico).
In alcuni disturbi gastrointestinali e metabolici, alcuni effetti benefici sono stati confermati mediante la raccolta di parametri clinici misurabili e standardizzati (come l’indice di massa corporea o la glicemia), tanto da suggerire per i probiotici un uso terapeutico, anche se questi dati vanno interpretati con la dovuta cautela,
perché l’effetto di probiotici e prebiotici nella composizione del microbioma è solo un passaggio intermedio e
la correlazione con l’esito clinico osservato non va data per scontata.
Al contrario di quanto accade in alcuni malati, l’utilizzo dei probiotici nella prevenzione delle malattie non ha
nessuna prova clinica a supporto né sembra determinare alcun cambiamento nella composizione delle popolazioni batteriche enteriche. Una revisione sistematica del 2016 ha preso in considerazione sette studi
controllati randomizzati di buona qualità, per analizzare gli effetti dei probiotici sul microbioma fecale
nell’adulto sano, rispetto all’assunzione di un placebo. Non è emersa alcuna modifica nella composizione del
microbioma fecale fra soggetti trattati e controlli in termini di diversità, di uniformità e di ricchezza microbica, nonostante l’utilizzo di tecniche sensibili di rilevamento molecolare.
La problematica definizione di probiotico
La definizione ufficiale di probiotico stabilita dalla FAO e dall’OMS nel 2002 è vaga e ha dato origine
a numerose male interpretazioni, come si può osservare dall’alto numero di pubblicazioni su MedLine
contenenti la parola “probiotics” senza che il prodotto in questione rispetti alcuni dei requisiti ritenuti fondamentali. Per questo motivo, nel 2013 l’Associazione Scientifica Internazionale dei Probiotici e Prebiotici (ISAPP), voluta e sostenuta dalle aziende produttrici e le cui attività vanno quindi sempre valutate con un approccio critico di cautela, ha convocato un gruppo di esperti per meglio definire il concetto di probiotico. In una dichiarazione di consenso21 vengono illustrate le seguenti categorie:
1. Prodotti vivi non probiotici: comprendono qualsiasi microrganismo coinvolto nella fermentazione
alimentare. Richiedono solo la presenza di organismi vivi e certificati come tali entro quantità minime, ma
nessuno studio specifico riguardo all’efficacia del prodotto. Si sottintende che i termini “vivo” o “attivo” riferiti al microrganismo non implichino necessariamente che il prodotto abbia un’attività probiotica, tutta -
via nel momento in cui il prodotto dia evidenze che rientrino nei criteri per questa categoria, esso può essere
qualificato come tale (per esempio, se un determinato yogurt dà evidenza di migliorare la digestione
del lattosio in soggetti che non lo digeriscono, quel prodotto può venire considerato un probiotico).
2. Probiotico alimentare o integratore, senza indicazioni esplicite per la salute: contiene uno o
più membri di una specie microbica sicura con evidenze sufficienti riguardo un effetto benefico generico
per la salute; richiede come criterio solo una prova di vitalità minima, che sia sopra certi livelli. Le evidenze
necessarie devono originare da studi sull’uomo ben condotti, che possono essere studi clinici controllati
e randomizzati, studi osservazionali, ma anche revisioni sistematiche o metanalisi a supporto del
reale beneficio per l’uomo; non è richiesto che vi siano evidenze per ogni specifico ceppo microbiologico
presente nel prodotto, ed esse possono anche venire estrapolate da aspettative ragionevoli riguardo agli
effetti dei microrganismi.
3. Probiotico alimentare o integratore, con indicazioni esplicite per la salute: deve recare indicazioni
più precise riguardo ai potenziali effetti e deve contenere uno o più ceppi probiotici vivi ben identificati
che mantengano la vitalità sino al termine del periodo di conservazione. Le evidenze necessarie devono
essere convincenti e riguardanti uno specifico ceppo microbiologico o una combinazione; inoltre devono
originare da studi clinici controllati e randomizzati, da studi osservazionali (utili per un’analisi di ciò
che accade nella vita reale) o da revisioni sistematiche e metanalisi che seguano i criteri stabiliti dalla Cochrane Collaboration
4. Farmaco probiotico: il prodotto reca specifiche indicazioni per il trattamento o la prevenzione di una
malattia, per esempio “utile per la prevenzione delle ricadute nei casi di colite ulcerosa” e deve contenere
uno o più ceppi probiotici vivi ben identificati che mantengano la vitalità sino al termine del periodo di
conservazione, oltre a una valutazione rischi-benefici che ne giustifichi il consumo. Le evidenze devono
originare da studi clinici condotti in maniera appropriata secondo le procedure regolatorie previste per la
sperimentazione dei farmaci.
Le ambiguità nella regolamentazione dei probiotici in Europa
Nonostante la vendita di questi prodotti non sia sempre supportata da prove di efficacia valide e affidabili,
l’impiego dei probiotici vanta un numero di consumatori sempre maggiore in tutto il mondo, numero che
sembra destinato a crescere nel tempo; il mercato europeo dei probiotici alimentari e degli integratori è stato
valutato essere di 1,464 milioni di euro nel 2021, quasi il 25% del valore globale nel mondo. Per quanto riguarda gli yogurt probiotici, nelle varie formulazioni commerciali, l’Europa si colloca al secondo posto per
consumo nella scala globale, seconda solo all’Asia del Pacifico.
In Europa, secondo un sondaggio del 2022 condotto su 11.716 partecipanti in 14 stati, il 12% degli intervistati
ha dichiarato di consumare supplementi probiotici per periodi stagionali, o al bisogno, principalmente (68%)
per migliorare la salute digestiva o intestinale.
Un grande problema nell’utilizzo e nella vendita dei prodotti probiotici è la loro regolamentazione. In primo
luogo, non vi è un quadro normativo consensuale tra i vari enti governativi del mondo, per esempio la regolamentazione negli Stati Uniti segue vie diverse rispetto a quelle dell’Unione Europea. In secondo luogo, le normative a cui fare riferimento possono essere diverse a seconda del prodotto stesso:
nel caso in cui i preparati probiotici rechino espresse indicazioni riguardo alla prevenzione, alla diagnosi,
al trattamento o al miglioramento di una malattia, allora essi sono classificati come prodotti medici o
farmaceutici e dunque regolamentati come tali, rientrando nella normativa vigente per i biologici poiché
si tratta di organismi complessi vivi;
in alcuni casi, laddove vi siano dati clinici convincenti riguardanti una particolare formulazione
probiotica, il prodotto può essere classificato come “alimento a fini medici speciali”, cioè “un prodotto
alimentare espressamente elaborato o formulato e destinato alla gestione dietetica di pazienti, compresi i
lattanti, da utilizzare sotto controllo medico; è destinato all’alimentazione completa o parziale di pazienti
con capacità limitata, disturbata o alterata di assumere, digerire, assorbire, metabolizzare o eliminare
alimenti comuni o determinate sostanze nutrienti in essi contenute o metaboliti, oppure con altre esigenze
nutrizionali determinate da condizioni cliniche e la cui gestione dietetica non può essere effettuata
esclusivamente con la modifica della normale “dieta”: rientrano in questa categoria malattie come il
morbo di Crohn, la celiachia o il diabete;
la maggior parte dei prodotti prebiotici non contiene tuttavia indicazioni specifiche per una malattia e
sono quindi classificati come integratori alimentari o dietetici, venendo dunque regolamentati dalle
direttive dell’industria alimentare.
A questo ultimo proposito, nell’Unione Europea i probiotici e gli integratori alimentari sono regolati dal Regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio sui prodotti alimentari, secondo i principi dettati dalla European Food Safety Authority (EFSA). Per quanto riguarda la sicurezza, la EFSA si avvale di una metodica chiamata “Presunzione Qualificata di Sicurezza” (QPS), che serve per formulare un’ipotesi circa la sicurezza di una sostanza sulla base di prove ragionevoli;un microrganismo per poter ottenere lo “stato di QPS” ed essere inserito nella lista dei prodotti sicuri deve avere:
un’identità tassonomica definita;
sufficienti conoscenze disponibili in materia per far sì che venga considerato sicuro;
un’accertata e giustificata assenza di proprietà patogene;
una destinazione d’uso chiaramente descritta.
Ne consegue che se un prodotto probiotico soddisfa i precedenti requisiti, esso non necessita di ulteriore va -
lutazione in termini di sicurezza, come invece avviene per i prodotti farmaceutici.
La definizione dei probiotici includerebbe inoltre, secondo quanto riportato dalle linee guida dell’EFSA, alcune caratteristiche: la dichiarazione QPS a livello di specie, in coerenza con quanto riportato sopra; la destinazione alla popolazione generale non in stato di salute; l’isolamento del prodotto dall’intestino, dal latte materno o da alcuni alimenti fermentati; una lunga storia di impiego nella popolazione di riferimento; l’appartenenza a generi microbici limitati. Per poter affermare che un alimento abbia un effetto probiotico, è necessario che esso segua le “Linee guida per la valutazione dei probiotici negli alimenti” definite congiuntamente dalla FAO e dall’OMS nel 2002, che stabiliscono gli standard di sicurezza ed efficacia dei probiotici, sistematizzandone la scoperta e la selezione.
La regolamentazione dei probiotici alimentari in Italia
In Italia, i documenti di riferimento sono le “Linee guida su probiotici e prebiotici” pubblicati dalla Direzione
generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione (Ministero della Salute), revisionate nel marzo
2018.32 Affinché possano essere usati negli alimenti e negli integratori, per ogni microrganismo (sia per i
batteri sia per i lieviti) è richiesta la caratterizzazione tassonomica della specie e del ceppo, che avviene mediante tecniche di biologia molecolare standardizzate e riconosciute. Inoltre i microrganismi devono: essere usati tradizionalmente per integrare il microbiota intestinale; essere considerati sicuri per l’uomo secondo i criteri QPS stabiliti dall’EFSA, ed è necessario accertarsi dell’assenza di resistenze agli antibiotici acquisite e/o trasmissibili; avere un’attività a livello intestinale che ne permetta la colonizzazione e la moltiplicazione.
In relazione all’ultimo punto, la quantità minima sufficiente per ottenere una temporanea colonizzazione
dell’intestino da parte di un ceppo microbico è stata stabilita essere di almeno 109 cellule vive per giorno, che
devono dunque essere presenti nella porzione di prodotto raccomandata giornalmente, e qualsiasi eccezione
deve essere supportata da ulteriori dati scientifici. Queste indicazioni di concentrazione devono essere per
ogni ceppo necessariamente riportate in etichetta e devono essere garantite per tutta la durata del prodotto
fino alla scadenza, mediante modalità di conservazione idonee.
L’introduzione di un nuovo ceppo microbico sul mercato dei probiotici deve essere preceduta da una nuova
valutazione di sicurezza (analisi tassonomica e profilo di resistenza) ed efficacia. L’unica eccezione viene fatta per quei ceppi che appartengono a specie sufficientemente caratterizzate, come definito dai documenti EFSA per lo status di QPS, nonostante il profilo di antibiotico-resistenza sia necessario per escludere quelle acquisite.
Le Linee guida del Ministero della Salute dichiarano inoltre un disaccordo parziale rispetto alla posizione
dell’EFSA. Infatti, l’EFSA sostiene che l’assunzione di probiotici al solo fine di “incrementare il numero di un qualsiasi gruppo di batteri” non sia di per sé un effetto benefico sulla salute, e che affermazioni come “sostenere una microflora intestinale equilibrata” o “influire beneficamente sulla microflora intestinale” potrebbero essere ritenute benefiche per la salute solo “in caso di una concomitante diminuzione dei microrganismi potenzialmente patogeni”. In sostanza, la sola documentazione della colonizzazione a livello intestinale di un probiotico non basta a sostenere un effetto benefico sulla salute, anche in riferimento al Regolamento (CE) 1924/2006. L’Italia, pur prendendo atto delle definizioni europee e della normativa vigente in Europa, ribadisce la validità del suo approccio e consente a “prodotti conformi alle presenti linee guida per il loro contenuto di probiotici o prebiotici, risultando plausibilmente in grado di favorire l’equilibrio della flora batterica” di poter riportare in etichetta tale effetto fisiologico mediante l’utilizzo esplicito dei termini “probiotico” e “prebiotico”.
Diversa ovviamente è la regolamentazione dei medicinali a base di probiotici, che seguono le procedure di
autorizzazione all’immissione in commercio degli altri farmaci.
L’efficacia dei probiotici
I probiotici più comunemente utilizzati e in vendita sono batteri appartenenti a Firmicutes (Lactobacillus,
Bacillus, Streptococcus) e Actinobacteria (Bifidobacterium), in maggior parte produttori di acido lattico, o
lieviti come il Saccharomyces cerevisiae.27,34,35 Nonostante l’impiego principale sia per i loro effetti sul tratto
gastrointestinale, la nascita di tecniche molecolari di nuova generazione ha permesso in tempi recenti di individuare
probiotici che potrebbero avere effetti anche sul tratto genitourinario, sulla cavità orale, sul tratto nasofaringeo
e sulla cute, nell’ipotesi che il supplemento di probiotici porti al ripristino delle condizioni fisiologiche
nei casi di perdita dell’omeostasi che si può verificare in varie malattie.
L ’efficacia dei probiotici nel sano
L’efficacia dei probiotici nella prevenzione delle malattie nei soggetti sani è oggetto di dibattito. In uno studio
del 2018, 19 volontari sani hanno ricevuto due volte al giorno per 4 settimane un supplemento probiotico
contenente vari ceppi batterici, di cui 4 tra i più comunemente usati nelle formulazioni commerciali. A distanza di 3 settimane, attraverso tecniche invasive (campionamento di microbioma e biopsie, e non mediante semplice analisi fecale) sono state identificate le specie presenti in diversi punti del tratto gastrointestinale. Dai risultati è emerso che i partecipanti si dividevano in due gruppi: i permissivi, con un aumento intestinale dei batteri presenti nel probiotico, e i resistenti, il cui microbioma rimaneva sostanzialmente invariato. Sono state tratte due conclusioni: in primo luogo, il campionamento fecale non è sempre rappresentativo della composizione microbica intestinale reale, poiché la sola analisi delle feci non mostrava le differenze tra i due gruppi rilevate invece dalle altre tecniche; in secondo luogo, una percentuale della popolazione potrebbe essere resistente alla colonizzazione dei microrganismi probiotici, fenomeno che dipende in gran parte dalla composizione del microbioma preesistente, che può essere molto variabile da soggetto a soggetto. Di conseguenza un approccio personalizzato nel suggerire l’assunzione di un probiotico potrebbe essere utile al fine di evitare trattamenti inefficaci e un inutile dispendio economico.
Una revisione narrativa del 2018 ha selezionato e analizzato 45 studi clinici pubblicati tra il 1990 e il 2017,
che avessero come oggetto la sperimentazione di probiotici su adulti sani per osservarne gli effetti rispetto a
un gruppo di controllo (generalmente placebo). Sono emersi i seguenti risultati:
degli studi analizzati, 15 trattano il cambiamento del microbioma intestinale (numero di partecipanti da
12 a 437): di questi studi, 14 suggeriscono che il supplemento di probiotici (somministrato da 4 a 14
settimane) potrebbe aumentare la conta dei batteri nell’intestino degli adulti sani, tuttavia cambiamenti
significativi sono stati riportati solo in 3 studi e la loro durata è solo temporanea e rapidamente seguita da
un ripristino delle condizioni iniziali. Non è stato possibile trarre conclusioni sull’efficacia considerando
l’eterogeneità di dose, durata e ceppo batterico utilizzati negli studi. Gli autori concludono tuttavia che il
microambiente intestinale, definito anche dal tipo di dieta e dal supplemento di probiotici, potrebbe avere
un impatto determinante nella colonizzazione dei microrganismi probiotici nel sano;
il secondo argomento di interesse della revisione è l’influenza sul sistema immunitario, trattata in 16 studi
(numero di partecipanti da 10 a 1.104): i probiotici sono stati assunti per un tempo compreso tra un mese
e 21 settimane. Alcune analisi molecolari sembrano supportare un miglioramento della risposta
immunitaria, come deducibile dal profilo dei biomarcatori analizzati. Tre studi in particolare riportano
benefici dei probiotici nel migliorare la risposta contro il comune raffreddore, misurato in termini di
incidenza, durata e sintomi; meno efficace sembra invece la somministrazione di antibiotici nei casi di
influenza, che richiede ulteriori approfondimenti. Le prove non sono comunque di buona qualità;
in 4 studi, a seguito della somministrazione di Lactobacillus acidophilus, Lactobacillus rhamnosus o
Lactobacillus fermentum per via orale o vaginale (per un tempo da 7 a 60 giorni) ad alcune donne sane in
età fertile (numero di partecipanti da 20 a 64), si è osservato un aumento del numero dei lattobacilli
vaginali e un miglioramento delle condizioni ambientali locali, insieme a una riduzione dell’incidenza
delle infezioni.
In generale dunque, gli autori della revisione concludono che il supplemento di prodotti probiotici nell’adulto
sano potrebbe avere effetti positivi sulla salute, tuttavia essi sottolineano che proprio la plasticità del microbioma, sottoposto a numerose influenze esterne, rende l’effetto del probiotico solo transitorio e dunque limitato nel tempo, così come genera risposte diverse in diversi soggetti. Allo stesso modo, gli autori suggeriscono la necessità di un numero maggiore di studi e una più rigida standardizzazione per poter effettuare nuove analisi comparative e giungere a conclusioni più solide e affidabili.
Per quanto riguarda l’efficacia dei probiotici nel malato, in alcune condizioni essi sono risultati efficaci in studi controllati e randomizzati e in revisioni sistematiche, tuttavia sono necessarie prove più solide per poter
tradurre queste evidenze in una pratica clinica sempre appropriata. Infatti, anche in questo caso la prescrizione
dei probiotici è spesso fatta senza considerare le prove di efficacia, nell’ipotesi che possano aiutare a risolvere
determinate problematiche.
A tal proposito, una revisione a rete pubblicata nel 2018 ha raccolto le prove emerse da quattordici revisioni
sistematiche della Cochrane Collaboration sull’utilizzo dei probiotici nelle condizioni gastrointestinali. Di
queste quattordici, solo quattro revisioni hanno prove solide sui benefici ottenuti dall’utilizzo dei probiotici, e
tutte riguardano condizioni associate alla diarrea.
Le altre revisioni, mirate al trattamento di colite, morbo di Crohn e malattie epatiche non hanno rilevato pro -
ve sufficientemente solide per confermare i benefici dei probiotici in queste condizioni. Secondo gli autori, il
limite principale nella conduzione degli studi clinici analizzati è l’eterogeneità dei risultati: infatti è presente
un’alta variabilità in termini di specie e ceppo microbico, di dose, di durata del trattamento e di parametri di
valutazione degli esiti clinici. In certi casi alcuni parametri fondamentali per poter determinare l’effetto di un
probiotico non sono nemmeno esplicitati: dei 160 studi clinici totali considerati, solo 100 studi (63%) specifi -
cano il ceppo batterico del probiotico, 151 (94%) il dosaggio, 129 (79%) la durata specifica dell’intervento e 47 (29%) la durata del periodo di follow-up. Spesso c’è anche assenza di informazioni sulle modalità di conservazione o la qualità del prodotto impiegato nello studio, così come di indicazioni sulla popolazione di indagine e sugli effetti avversi osservati. Un altro limite è dato dalla mancanza di definizioni standardizzate delle diverse condizioni cliniche: per esempio, nel complesso degli studi considerati si contano numerose definizioni di “diarrea”, ognuna stabilita secondo propri criteri. Dunque, sebbene gli autori concludano che le prove suggeriscano un effetto benefico dei probiotici nella diarrea e nelle condizioni legate al tratto gastrointestinale (dato da confermare con altri studi), l’eterogeneità e la mancanza di informazioni nella descrizione dei protocolli ostacola la possibilità di trarre conclusioni attendibili circa i risultati prodotti, poiché essi non sono confrontabili tra loro.
Per maggiore interesse personale cito il tema dei I probiotici nelle malattie vulvovaginali
Gli squilibri del microbioma batterico vaginale sono fenomeni piuttosto frequenti con un forte impatto sia fisico sia psicologico sulla donna: poiché la popolazione batterica dominante in tale distretto è costituita in
gran parte dai lattobacilli, e poiché i trattamenti usati in prima linea (metronidazolo e clindamicina) portano
frequentemente a recidive, vengono proposti sul mercato probiotici con l’obiettivo di ripristinare i meccanismi di competizione microbica e di produzione di sostanze benefiche per poter aiutare (o prevenire) condizioni come la vaginosi batterica o la candidosi vulvovaginale.
Anche in questo caso, è necessario prestare attenzione alle prove di efficacia, che sembrano essere in aumento, riguardo all’utilizzo dei probiotici in questo contesto.
Una revisione sistematica del 2022 ha individuato 18 studi controllati e randomizzati condotti su 1.651 donne
maggiorenni con vaginosi batterica; il probiotico utilizzato era a singolo microrganismo o combinazione e
somministrato per via orale o vaginale. Sono emersi i seguenti risultati:
probiotico (singolo o combinazione) rispetto al placebo: il gruppo che ha assunto il probiotico ha un tasso
di ricorrenza di vaginosi batterica significativamente inferiore rispetto al gruppo con placebo, sia a 1-3
mesi dalla somministrazione (rapporto di rischio 0,155, limiti di confidenza al 95% da 0,072 a 0,331), sia
globalmente (rapporto di rischio: 10,120, limiti di confidenza al 95% da 1,457 a 70,304);
probiotico rispetto ad antibiotico: il gruppo che ha assunto il solo probiotico ha un tasso di ricorrenza
della vaginosi batterica significativamente inferiore a un mese (rapporto di rischio 0,387, limiti di
confidenza al 95% da 0,206 a 0,726) e 1-3 mesi dall’inizio del trattamento (rapporto di rischio 0,180,
limiti di confidenza al 95% da 0,057 a 0,571), ma anche globale (rapporto di rischio 0,306, limiti di
confidenza al 95% da 0,176 a 0,532), rispetto al gruppo con solo antibiotico;
probiotico associato ad antibiotico rispetto all’antibiotico da solo: il gruppo con la combinazione ha un
tasso di ricorrenza della malattia significativamente inferiore sia a 1-3 mesi (rapporto di rischio 0,302,
limiti di confidenza al 95% da 0,172 a 0,532), sia globalmente (rapporto di rischio 0,914, limiti di
confidenza al 95% da 0,238 a 0,737) rispetto al solo antibiotico.
Gli autori specificano che i limiti delle analisi sono dati dalla scarsità numerica del campione e dall’eteroge -
neità delle condizioni nei singoli studi, tuttavia i risultati ottenuti sono incoraggianti per poter proseguire con
ulteriori approfondimenti.
Microbioma e microbiota nel sano e nel malato
Uno studio ha valutato il potenziale probiotico del batterio Lacticaseibacillus rhamnosus TOM 22.8, isolato
dal microbioma vaginale di un soggetto sano.49 Sono state arruolate 30 donne tra i 18 e i 45 anni d’età con fastidio vaginale e leucorrea, la metà delle quali riportava anche bruciore e prurito. A un primo gruppo delle
partecipanti è stato somministrato il Lacticaseibacillus rhamnosus TOM 22.8 per bocca, al secondo per via
vaginale, mentre un terzo gruppo non ha ricevuto alcun trattamento. Il primo e il secondo gruppo hanno mostrato un miglioramento significativo dei sintomi a 10 giorni e ulteriormente a 30 giorni dall’inizio della somministrazione rispetto alle donne non trattate (p<0,05 per tutti i confronti). Non è stato registrato alcun
evento avverso. Gli autori dello studio suggeriscono quindi un potenziale utilizzo di questo batterio come
trattamento per il ripristino delle condizioni di eubiosi vaginale, nonostante questo sia solo un punto di partenza preliminare per ulteriori studi, che dovranno confermare o smentire i dati su più ampia scala.
Infine, si riporta in tabella una revisione sistematica della Cochrane Collaboration riguardante l’impiego di
probiotici nella candidosi vulvovaginale.
I probiotici nella candidosi vulvovaginale
È stata valutata l’efficacia del probiotico utilizzato in aggiunta all’antimicotico in confronto all’antimicotico da solo. Il probiotico ha aumentato nel breve termine il tasso di guarigione clinica (rapporto di rischio e ha
inoltre abbassato il tasso di recidiva a un mese. Non sono però stati evidenziati gli stessi risultati nel lungo periodo. Non è stato segnalato nessun aumento della frequenza di eventi avversi
Probiotici in associazione agli antibiotici
L’uso di probiotici e fermenti lattici in concomitanza con la somministrazione di antibiotici è prassi frequente
nella popolazione e anche un consiglio spesso dato dai medici: si stima che circa un terzo dei pazienti
trattati con un antibiotico possa sviluppare sintomi diarroici, e il razionale è quello di ripristinare le
condizioni microbiche intestinali che, a causa dell’antibiotico, subiscono uno squilibrio come effetto collaterale, con conseguente alterazione delle funzionalità benefiche per l’ospite.1 L’efficacia dei probiotici in
questa circostanza è in realtà ancora discussa e le prove a supporto sono scarse.
La sicurezza dei probiotici
La regolamentazione europea prevista per i prodotti prebiotici venduti come alimenti o integratori non tiene
conto di alcune caratteristiche fondamentali di questa classe di prodotti: i microrganismi contenuti sono vivi,
dunque dinamici e non statici; le proprietà dei singoli microrganismi variano molto da specie a specie, così
come variano gli effetti clinici a cui portano ma non sempre per questi prodotti è necessario identificare tutte
le specie presenti, soprattutto se il probiotico non ha indicazioni esplicite per la salute; nei prodotti multispecie infine non si tiene conto delle possibili interazioni reciproche tra le singole componenti. Oltre all’aspetto qualitativo, anche le quantità di microrganismi presenti nei probiotici variano da prodotto a prodotto.
Questo approccio sarebbe quindi inadeguato a soddisfare standard di qualità, sicurezza e validità del prodotto
commerciale, che sono invece alla base di un suggerimento ponderato da parte dei professionisti della salute
e di un acquisto consapevole da parte del consumatore. In aggiunta, la sicurezza e l’efficacia dipendono
fortemente dai processi di produzione e confezionamento, che non sempre sono strettamente controllati e
standardizzati. Sovente ci sono incongruenze e discrepanze rispetto alle informazioni fornite sull’etichetta del prodotto, come segnalato dalla Società Europea di Gastroenterologia, Epatologia e Nutrizione Pediatrica nel
2017. Ciò che la Società denuncia inoltre è che non sempre i ceppi microbiologici sono identificati correttamente e si assiste spesso a fenomeni di contaminazione (a volte anche con patogeni), scarsa vitalità cellulare e riduzione conseguente delle proprietà funzionali. Per questo motivo, si sottolinea la necessità di un maggior rigore e controllo nei processi di produzione e impacchettamento del prodotto, che sarebbe forse necessario trattare al pari di un prodotto farmaceutico.
Tra i potenziali rischi legati all’utilizzo dei probiotici vi è anche l’introduzione di nuovi geni nel microbioma
dei consumatori, tra cui quelli che possono conferire resistenza agli antibiotici. Se da una parte la resistenza
intrinseca, cioè strettamente legata al ceppo, è auspicabile per il batterio introdotto in quanto spesso il
probiotico viene somministrato in concomitanza con gli antibiotici, d’altra parte le resistenze acquisite potrebbero potenzialmente essere trasferite a batteri patogeni, nonostante questo fenomeno sia stato confermato in vivo e in vitro ma necessiti di ulteriori prove nell’uomo. Sono state messe a punto alcune tecniche al fine di assicurare l’assenza di geni mobili di resistenza all’interno del probiotico, tuttavia, in alcuni paesi, come gli Stati Uniti, l’FDA non richiede questo tipo di precauzioni nella produzione dei probiotici, aumentando il rischio di diffusione del fenomeno.
Infine, i probiotici possono essere causa di reazioni avverse, nonostante in generale abbiano un buon profilo
di sicurezza: è fondamentale conoscere i possibili rischi legati al loro utilizzo per consentire all’operatore sa -
nitario, così come al consumatore, di prendere decisioni consapevoli.
I principali rischi gravi estremamente rari sono legati: al potenziale trasferimento dei batteri nel circolo sanguigno, dove potrebbero causare un’infezione sistemica in pazienti già in condizioni fragili, mentre non è mai stato documentato nel sano; alla stimolazione aberrante del sistema immunitario; alla presenza di attività
metaboliche indesiderate nell’ospite, come la produzione di D-lattato che genera uno stato di acidosi lattica
problematica in alcuni pazienti fragili.
Per quanto riguarda gli effetti avversi lievi, negli studi clinici sono stati evidenziati disturbi gastrointestinali
come nausea, diarrea, gonfiore e flatulenza. La discussione verte sul fatto che non sono mai stati valutati gli
effetti a lungo termine dell’assunzione di probiotici, così come spesso manca un’attività di standardizzazione
e sistematizzazione nel riportare gli eventi avversi negli studi clinici, le cui segnalazioni sono spesso mancanti, insufficienti o inadeguate; tali segnalazioni dovrebbero avvenire sia nel caso in cui gli eventi avversi si verifichino, sia nel caso non ve ne siano.
Altre volte, ai ceppi batterici utilizzati è riconosciuta la “Presunzione Qualificata di Sicurezza” come nel caso dell’EFSA, una metodica che segue criteri precisi e che si appoggia alla lunga storia d’uso sicuro dei probiotici sin dai tempi del loro sviluppo per la conservazione dei cibi tramite la fermentazione, come
avviene per esempio per i prodotti caseari. Tale generalizzazione tuttavia non dovrebbe essere valida per tutte
le persone: specialmente nei soggetti più vulnerabili l’esposizione ad alti dosaggi o per lunghi periodi di
tempo potrebbe dare effetti di cui non si è ancora a conoscenza, per cui sarebbe meglio procedere sempre se -
condo il principio di cautela, in attesa di studi specifici al riguardo che possano fornire risposte concrete.
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